La vera “dolce morte”

Se vogliamo mantenere ben saldo il principio che le parole hanno un senso, il tentativo di interpretare il recente discorso del Santo Padre, in occasione del Meeting Regionale Europeo della W.M.A., a favore di un’apertura a derive eutanasiche è un classico esempio di strumentalizzazione faziosa.

Volendo ricercare una sintesi, il concetto centrale dell’intervento, può essere trovato in questa frase: “.. possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. In questa linea si muove la medicina palliativa”. Una riga o poco più in cui è affrontato e risolto nelle linee essenziali l’intero dilemma bioetico del cosiddetto “fine vita”. Accanimento terapeutico ed eutanasia sono due facce di una stessa medaglia, che va rigettata come moneta falsa in quanto manipolazione della dignità della vita umana.

Relazione di cura, medico e paziente, e medicina palliativa le direttrici di un comportamento umano, solidale, virtuoso, onesto che coniuga l’incontro di due esigenze: il bisogno di cura proprio del malato e l’offerta di competenza professionale ed umana in capo al medico. Si tratta di intraprendere la via del rispetto di due coscienze e delle scelte che ne derivano: la coscienza di chi chiede di decidere liberamente le cure cui sottoporsi o meno, e la coscienza del medico il cui “dovere deontologico” è e rimane “la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo, il trattamento del dolore ed il sollievo della sofferenza” (art.3 Codice Deontologia Medica).

Nel suo discorso il Papa non nasconde che si tratta di un percorso tutt’altro che facile, dato che all’enunciazione abbastanza semplice del principio si accompagna una elencazione quasi infinita di singoli casi, che andranno affrontati specificamente, dato che “i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare”. Questa è la ragione per la quale ci viene indicata una sorta di via maestra da non dimenticare mai: la “prossimità responsabile”, con “l’imperativo categorico di non abbandonare mai il malato”, ed un riferimento evangelico ben preciso nella figura del Samaritano.

Or dunque, analizzando con onestà le parole del Santo Padre è impossibile trovare sia una discontinuità con il magistero dei suoi predecessori, sia un’apertura alle istanze eutanasiche. Il fatto poi che il mondo cosiddetto laico abbia esultato al “nuovo corso” non è che una dimostrazione in più di quanto pregiudizio ideologico vi sia sui temi delicati della vita, all’inizio, nel suo scorrere ed alla fine.

Certamente va accolto l’appello al clima di “reciproco ascolto e accoglienza”, non nascondendoci che mentre è scontato ormai da anni (per la precisione dal 1993) che il consenso informato al trattamento sanitario è prassi medica doverosa, che ha le sue radici nello stesso articolo 32 della Costituzione (quanti di noi abbiamo firmato o rifiutato trattamenti proposti!), è assai meno scontato che una disposizione anticipata di trattamento – scritta “ora per allora”, cioè anni prima e necessariamente generica e non attuale – corrisponda veramente alla volontà del malato quando la patologia è in atto.

Non se ne esce, o meglio c’è una sola via d’uscita che rispetti veramente tutte le istanze in gioco – vita, dignità e libertà del malato, professionalità e coscienza del medico -che il Codice deontologico sintetizza senza equivoci in tre righe: “Il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate in forma scritta… verifica la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto ed ispira la propria condotta al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente” (art.38).

Mi permetto una chiosa finale. Noi medici dovremmo eleggere Santa Teresa di Calcutta nostra patrona morale: ha curato migliaia e migliaia di malati, non si è accanita verso alcuno e non ha mai invocato eutanasia, garantendo a tutti la vera “dolce morte naturale”, attesa insieme fino all’ultimo respiro.

Massimo Gandolfini – Neurochirurgo e Psichiatra